Un giorno e mezzo

Un giorno e mezzo

Un giorno e mezzo

Posillipo, Napoli, NA, Italia

Un giorno e mezzo

(1988)

Fabrizia Ramondino


Napoli, Campania, Italia.
Percorsi Tematici
Ombre e Malacque, Tempi Moderni

Tutto il quartiere era un’ibrida mescolanza di epoche e stili. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta i capitali, liberati dalla paura, con feroce e spensierata allegria, erano stati investiti in terreni e panorama, le uniche ricchezze della città; ma avevano dovuto fare i conti con i vincoli paesaggistici, facili peraltro da aggirare, con il complicato intreccio di titoli di proprietà e diritti di occupazione in quella zona fino allora considerata campagna, che l’espansione della città aveva trasformato in terreno edificabile.
Convivevano quindi, in sonnolenta indifferenza reciproca, le lucide facciate moderne, le fabbriche decrepite, le ville abbandonate, i patetici villini e i casolari. Già d’altra parte cinquanta o ottant’anni prima quelle casupole di tufo e pomice, avevano assistito trasecolate all’apparizione sontuosa delle ville. Nudi abitacoli, un cubo, due cubi, tre cubi affiancati o, per gran lusso del mezzadro e perizia del mastro muratore, addirittura quattro cubi, a due a due l’uno sull’altro, collegati da una scaletta esterna, e appeso, come per un’ardita acrobazia, al corpo dell’edificio, il piccolo parallelepipedo rettangolare del cesso, al secondo piano. Le ville invece erano piene di curve, di stucchi, di affreschi, di marmi; di vetri colorati con disegni geometrici o motivi floreali, astrusi simboli, innocenti voluttà di signori in pantofole, di signore svampite dalla noia, peccatucci dell’occhio, accidiose fioriture delle cedole della rendita o della furba evasione nella dichiarazione dei cespiti. I piccoli interiors – interni, intimità, interiora – amavano ricoprirsi di mistero, sembravano invocare un grande delitto che non fosse soltanto il consueto adulterio o il furto della cameriera.
Le costruzioni moderne avevano anch’esse i loro ornamenti e prodigi. Erano noti in tutta la città i sette pilastri di cemento, rivestiti di mosaico azzurro, che esili ed eleganti sostenevano un intero palazzo; pannelli di maioliche gialle e verdi ornavano pezzi di facciata, a preannunciare il fasto dei bagni; massicce infettiate di ferro pretendevano di conferire a modeste abitazioni la dignità statale di scuole e di carceri o, con l’aggiunta dei marmi, l’imponenza di templi e di banche. A volte luci rosse illuminavano gli atri, a imitazione dei night, o li ornavano acquari. Balaustre in plexiglas opaco servivano, secondo la popolazione del quartiere, a non mostrare dal balcone le gambe. Come pitoni, scendevano snodandosi a esse le piste di asfalto dei garage sotterranei.
In seguito alle manifestazioni contro la guerra del Vietnam molti americani, residenti nei nuovi edifici, avevano abbandonato il quartiere e si erano rifugiati in ghetti più sicuri, verso Bagnoli, Pozzuoli, Miseno e Licola; rimanevano però le famiglie degli ufficiali più spregiudicati, quelli le cui mogli volevano instaurare un legame con la città – e nel loro paese con i portoricani e con i negri; e la sera, nelle pizzerie e nei locali notturni arrivavano ancora marinai.
Il quartiere, malgrado l’urbanizzazione recente, continuava a somigliare più a un luogo di villeggiatura che a un’estrema periferia; l’affinità nei costumi dei signori e dei servi, tipica dei napoletani, che oltre che divisi in classi lo sono, poveri e ricchi, nell’animo, tutti metà signori metà lazzaroni, favoriva la domenica mattina, in quell’ intrico di strade in cima alla collina, un via vai di vecchi gentiluomini e giovanotti in pigiama o vestaglia, diretti al bar per il caffè mattutino, di bidelli, operai, cameriere e sartine, egualmente discinti, che andavano a comprare il latte o le sigarette.
Si avviavano, invece, vestite di tutto punto, le gambe magre velate di calze grigie o marrone, i capelli bianchi sfumati nell’azzurro o nel viola, un po’ di belletto sulle guance esangui, sole, mai in gruppo, le vecchie signore alla messa. Molte seguivano nell’abbigliamento l’ultima moda: si erano accorciate le gonne fino al ginocchio e l’età, oltre che nei volti, nei capelli, nei colli, nelle mani, si rivelava nei polpacci. La nuova cappella, a forma di triangolo isoscele, rilucente di vetri e di marmi bianchi, era in cima alla collina.

[…]
Le case mangiavano la terra, e questo accadeva dovunque, lo si vedeva bene dall’alto, persino le pendici del Vesuvio diventavano bianche di case. Addirittura quei diavoli di costruttori avevano lasciato piante nei cortili delle palazzine come ornamento, sicché ulivi e fichi si erano inselvatichiti e crescevano allampanati e magri per nostalgia del sole, soffocati dal cemento e dal tanfo di benzina.

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