La casa cattiva

La casa cattiva

La casa cattiva

Boscoreale, NA, Italia

La casa cattiva

(1957)

Michele Prisco


Boscoreale, Campania, Italia.
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in Fuochi a mare

Avevano camminato a lungo, adagio e quasi vicini, come se fossero stanchi o non sapessero dove dirigere i loro passi.
Una primavera ancora irresoluta vibrava intorno e già s’annunziava nelle prime gemme trepidamente appollaiate sui rami, nei fili d’erba teneri lungo i sentieri, in certa mollezza dell’aria che sembrava fermarsi, intenta a ricordare i languori d’altre e lontane stagioni. Era la loro solita passeggiata pomeridiana, che consumavano quasi sempre in silenzio, scambiandosi solo, ogni tanto, qualche osservazione sul tempo, o sulla coltura dei campi, o talvolta sugli avvenimenti politici: ma su quest’ultimo argomento non avevano molto da dirsi, insieme avevano l’impressione inconfessata di vivere in uno stato d’attesa. Aspettavano. E poi erano di poche parole: per carattere, e anche perché le vicende della loro vita familiare li avevano resi entrambi scontrosi, se così si può dire: in ogni caso, proclivi a un sentimento di diffidenza. Ora Angela camminava con le spalle curve e gli occhi chini a fissare il terriccio granuloso e arido: sapeva che i suoi passi vi affondavano lasciando una traccia appena fumante, come una pista di grigi fuochi fatui, ed era quasi presa dal desiderio puerile di voltarsi indietro a guardare la successione delle impronte. Ma non si voltava, come se avesse voluto saggiare la propria volontà non cedendo a questo capriccio ingiustificato, o come se volesse punire, vietandosela, la debolezza di simili voglie. Camminava in tal modo anche accigliata, con un passo sempre più calcato.
Improvvisamente senti alle spalle suo padre parlarle e le parve di cogliere nella sua voce uno stupore così dilatato e felice per il quale fu subito spinta a ricercarne i motivi, al punto di distrarsi e non avvertire il significato delle parole.
Allora suo padre ripeté, piano: «Angela, le finestre dei Lanza sono aperte». La ragazza alzò il capo a guardare. La casa dei Lanza era in fondo, dove le falde del Vesuvio cominciano a tentare l’erta con la mandria dei pini. C’erano due finestre spalancate, come uno sguardo improvviso, e lei se ne sentì turbata e chinò un’altra volta gli occhi a terra.
«Sì», disse.
«Guarda», disse suo padre, «sono proprio aperte, ci deve essere qualcuno, dentro, dev’essere tornato qualcuno. Guarda, Angela».
Lei rialzò gli occhi quasi controvoglia; si erano fermati, e fissavano ora insieme i due rettangoli scuri che interrompevano l’attintatura vecchia e giallastra della facciata. La distanza impediva di poter osservare l’interno delle finestre, ma egli aveva messo le mani nelle tasche della giacca a cercarvi le sigarette, e le tratteneva contro le anche, adesso, come se volesse arrestare un brivido, e intanto pensava alle stanze della casa dove certo qualcuno era entrato, e ora si moveva dentro, era tornato e aveva aperto le finestre.
«Andiamo», disse Angela impaziente, staccando un arbusto da un cespuglio, «tra poco è sera».
Egli la segui sorridendo. Ella camminava staccando dal ramo le foglie, qualche spino, spellandolo con le unghie della corteccia, e le pareva d’essere in collera contro suo padre.
Egli guardava in principio distrattamente le spalle della ragazza che lo precedeva di qualche passo, guardava assorto la giacca a maglia che vi si appoggiava: allora si accorse con una specie di angoscia soffocata che la giacca era d’un colore giallo sbiadito, proprio come la casa, e fisso quasi atterrito la lana dovendogli sembrare che presto anche lì, per una simultanea allucinazione, si sarebbero aperte due finestre, due occhi spalancati a guardare la campagna dopo tanti anni d’assenza. Si fermò di nuovo. Angela, avvertendo che lo scalpiccio dei passi del padre le era mancato, si fermò a sua volta, ma senza girarsi. Disse:
«Papà?», con una voce malferma, che cercava d’addolcirsi per vincere la sua inutile e sciocca irritazione. L’uomo disse:
«Sto pensando, Angela, ai Lanza. Chi potrà essere tornato, nella casa?».
Lei rispose dopo una pausa, gettando lontano l’arbusto: «Annotta, papà, bisogna rientrare». Sbucavano infatti qua e là azzurri e vaghi veli e si disponevano intorno ai cespugli, un odore di fumo resinoso colmava l’aria: forse già in qualche cortile i contadini accendevano il fuoco con gli aghi secchi dei pini, essendo ormai rientrati dal lavoro nei campi.
«Angela», egli disse, «Angela, hanno acceso, guarda. Sono le finestre del salotto».
I veli della sera si posavano lenti e bassi, sulla campagna, come a custodirla dell’umidità che la notte presto avrebbe portato con sé, sino a inzuppare le piante. Adesso le finestre illuminate rassomigliavano veramente a un misterioso segnale d’intesa, allungavano sul prato dinanzi alla casa due allampanati rettangoli di chiarità: ma nessun’ombra passava in quella luce, ch’era fredda e patita, come se volesse far intendere che tornava dopo un’assenza ed era quasi disavvezza a riaffacciarsi alle finestre e andare a posarsi sul prato. Chi sa chi era tornato, dei Lanza.
Rientrarono taciturni. Lei andò direttamente nella sua camera: appena entrata, subito, al buio, vide oltre i vetri della finestra, lontano, le luci della casa, ma più intense, nella sera ora più intensa, e si avvicinò a guardare come se quelle luci aspettassero proprio lei.

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